"The fish", Marianne Moore

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"The fish", Marianne Moore

Messaggio da Etere » 16/02/2015, 21:04

I pesci
A guado,
vanno per nera giada.
Dei mitili blu-corvo, uno
continua
a rassettare i cumuli di cenere;
e si apre e si chiude come fosse
un
ventaglio ferito.
I cirripedi che incrostano il
fianco
dell'onda non possono nascondersi
laggiù perché gli strali sommersi del
sole,
franti come vetro
filato, si muovono con la rapidita' di riflettori
giu' nei crepacci,
dentro e fuori, illuminando
il
mare turchese
di corpi. L'acqua sospinge un
cuneo
di ferro entro lo spigolo ferrigno
dello scoglio -, sopra il quale le stelle,
rosei
chicchi di riso, meduse
imbrattate d'inchiostro, granchi simili a
verdi
gigli, e velenosi funghi
sottomarini scivolano dondolando uno sull'altro.
Tutti
i segni
esterni dell'oltraggio sono presenti in
questo
temerario edificio –
tutti gli aspetti fisici dell'ac-
cidente – mancanza
di cornice, solchi di dinamite, bruciature
e
colpi d'ascia, queste cose spiccano
sulla sua superficie; la parete del baratro
è morta.
Ripetute
prove hanno dimostrato che lo scoglio puo'
vivere
di cio' che non potra' resuscitare
la sua giovinezza. E dentro ad esso si fa vecchio il mare.
Senza il sol nulla son io

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Messaggio da Etere » 16/02/2015, 21:10

Paola A. Nardi, nel suo splendido saggio intitolato “Marianne Moore. La poesia dello spazio” (Artemide ediz., 2007, pagg. 202-210), analizza la lirica “The fish” composta dalla poetessa modernista M. Moore. Questo lavoro costituisce l’unica monografia dedicata a M. Moore esistente al momento in Italia e in esso la Nardi passa sistematicamente in rassegna una parte (precisamente dieci poesie) della vasta produzione poetica dell’artista americana. Paola Nardi, nella fattispecie, spiega che (come si può evincere dal titolo)“The fish” ha per protagonista il mare, ma non la distesa marina nella sua immensità, bensì una sezione particolare di essa: precisamente quella che si insinua tra le fessure di uno scoglio in prossimità della costa. Il mare, prosegue la Nardi, che scivola in questa piccola gola tra gli scogli evoca l’immagine di una relazione promiscua tra l’elemento marino e quello roccioso (tra mare e terra), di una combinazione tra movimento e stasi. Trattandosi di una particolare sezione del mare, i connotati tradizionali dell’habitat marino subiscono un’alterazione che si ripercuote, come vedremo, sugli abitatori marini (sui loro movimenti, sui colori della loro livrea, etc.) di questa porzione di mare. E questo avviene già a partire dall’incipit della poesia: «i pesci guadano per nera giada». Marianne Moore, fa notare Nardi, usa qui il verbo di movimento guadare (anziché il verbo nuotare), “quasi che la fessura fosse così stretta che i pesci toccassero con le pinne le pareti” (concretizzandosi in questo modo suggestivo la mescolanza tra mare e terra di cui si è detto in precedenza). Inoltre, continua la Nardi, poiché all’interno della gola l’acqua marina è totalmente circondata dalla roccia, essa (l'acqua) perde la sua trasparenza caratteristica oscurandosi e metamorfosizzando così, in termini di colore, in un nero pece talmente pregnante da “apparire solidificata come pietra (…) Mare e terra sono così mescolate che l’acqua diventa nera e la roccia scintillante”. Cioè, “scintillante” se rapportata al colore dell’acqua marina divenuto di un nero così intenso da far apparire (paradossalmente) l’acqua stessa più scura della roccia (roccia che, dal canto suo, a confronto dell’acqua sembra essere divenuta trasparente, di “giada”: la giada è infatti, come sappiamo, una pietra ornamentale nota per la sua lucentezza). «Dei mitili blu-corvo, uno continua a rassettare i cumuli di cenere». Per la Nardi, la sparizione dei pesci dell’incipit nella «nera giada», consente ora “che l’occhio dell’osservatore [si possa posare] su altre creature marine presenti nel luogo verso cui i pesci hanno attratto la sua attenzione”, creature che vengono descritte dalla Moore in modo inusuale, come se esse riflettessero, "somatizzandola", la particolarità della nicchia ecologica che popolano: i mitili dal colore blu-corvino aprono e chiudono le loro valve come se fossero un «ventaglio», mentre le stelle marine, a causa dell’habitat disagevole della gola in cui si sono adattate a vivere, si sono ristrette somigliando a «rosei chicchi di riso». Il processo di alterazione che agisce sugli abitatori della gola viene estremizzato quando la Moore si sofferma sulla descrizione delle altre creature che fanno compagnia alle stelle marine sopra la superficie dello scoglio: «granchi simili a verdi gigli» e «velenosi funghi sottomarini» che sembrano usciti da una fiaba ambientata in uno strano bosco situato sulla terraferma anziché in mare. A mio parere, la descrizione degli effetti scaturiti dall’alterazione raggiunge il picco artistico più elevato nella rappresentazione che la Moore fa dei «cirripedi che incrostano il fianco dell’onda»: in questo caso, come scrive Paola Nardi, “i cirripedi, visti attraverso il flutto che si infrange, sembrano per effetto ottico incrostare il fianco dell’onda e realizzare così una perfetta sovrapposizione mare/terra (…), [ossia] tra l’onda che scorre sulla roccia e la roccia stessa”. La poetessa intende in tal modo sottolineare “la grande capacità di adesione di questi piccoli crostacei” che è superiore alla forza impetuosa dell’onda marina. Nella quarta strofa, in modo apparentemente improvviso e inaspettato, il mare inizia ad assumere una connotazione “quasi violenta”: «l’acqua sospinge un cuneo di ferro entro lo spigolo ferrigno dello scoglio». L’onda si scaglia cioè con furia contro lo scoglio il quale tuttavia mostra, in opposizione all’assalto subito, il suo spigolo di ferro. Adesso, la gola nello scoglio roccioso, da nicchia in cui regnava sovrana la mescolanza si trasforma in un ambiente periglioso in cui terra e mare vengono a tenzone: ecco allora, come segnala Nardi, che termini (apparentemente sparsi in maniera non studiata, ma che in realtà si rivelano sapientemente distribuiti in modo strategico dalla poetessa al fine di far valere al momento opportuno l’effetto-sorpresa) quali «cenere», «ferito», «lance», «corpi», «imbrattate», “silenti in un’ambientazione pacifica, vengono riletti come segni di distruzione, tracce in tempo di pace dello scontro avvenuto e ancora possibile”. «Tutti i segni esterni dell’oltraggio sono presenti» sulle pareti rocciose della gola. La gola nella roccia viene definita come un «temerario edificio», con l’evidente l’intento da parte della Moore di introdurre (per il tramite appunto del termine “edificio”), l’elemento umano in un contesto naturale marino, cioè in uno scenario vergine e incontaminato: non a caso, poco prima, si parla di «oltraggio» (riecheggiando quasi una morale umana) e, subito dopo, i segni esterni dell’oltraggio stesso vengono descritti mediante termini direttamente collegabili all’agire umano: «mancanza di cornice, solchi di dinamite, bruciature e colpi d’ascia». Scrive a questo proposito Paola Nardi: “La terra, più facilmente sottomettibile al dominio dell’uomo rispetto al mare, rende visibile nello spazio naturale l’elemento umano”. Proprio in conseguenza delle letali ferite che le sono state inferte, «la parete del baratro è morta». La Nardi conclude infine la sua approfondita analisi scrivendo: “Tuttavia, come «ripetute prove hanno mostrato», è proprio su questi segni di oltraggio, incapaci di «far rivivere la sua giovinezza», che la roccia sopravvive, così a lungo da poter vedere il mare, solitamente simbolo di eternità, invecchiare dentro di essa. Con l’abbraccio finale tra mare e terra e con la roccia che avvolge completamente l’acqua, si realizza l’ultima e definitiva unione fra questi due elementi, entrambi invecchiati ma immortali”.


[URL=http://www.imagebam.com/image/8b882e390732881][img]http://thumbnails112.imagebam.com/39074/8b882e390732881.jpg[/img][/URL]
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Messaggio da Etere » 13/03/2015, 21:55

Ho appena finito di leggere le ultime pagine della monografia di Paola Nardi. La monografia è intitolata “Marianne Moore. La poesia dello spazio”, perché analizza una parte della vasta produzione poetica della Moore da una prospettiva spaziale, considerando in particolare (e in sequenza) tre ambiti spaziali: la città, il paesaggio naturale(la "wilderness", nello specifico), il mare. Il mio consiglio è di leggere innanzitutto le poesie dedicate allo spazio marino (in primis “The fish” e “A grave”), poi quelle riguardanti lo spazio del paesaggio naturale (prima fra tutte la splendida e lunghissima “Virginia Britannia”) e infine, prima di chiudere con le poesie relative allo spazio urbano (in primo luogo “Dock rats”, lirica in cui la voce narrante è quella di un…ratto :) ), suggerisco di leggere “The Steeple-Jack” che contiene in sé spunti riguardanti tutti e tre i contesti spaziali di cui si è detto. “The Steeple-Jack” inizia così

Dürer avrebbe trovato un buon motivo per vivere in una città come questa, con otto balene arenate da guardare; con l’aria dolce del mare che ti arriva in casa in una bella giornata, su dall’acqua incisa d’onde, perentorie come le squame di un pesce. A uno a uno, a due e a tre, i gabbiani continuano a volare avanti e indietro sull’orologio municipale, o a veleggiare intorno al faro senza muovere l’ali (…)

insinuando nel lettore il dubbio se la poetessa stia effettivamente descrivendo un paesaggio reale oppure se si tratti invece di un dipinto (e quindi di un paesaggio immaginato, considerato che – come spiega Paola Nardi – nell’incipit si nomina il pittore rinascimentale tedesco Albrecht Dürer, e successivamente si parla dell’acqua del mare «incisa d’onde» (richiamando in tal modo la tecnica pittorica dell’acqua forte), e di un giovane studente - probabilmente uno studente d’arte - che compare nel prosieguo della poesia «seduto là sul pendio con libri strani e il suo strano cappello» intento a osservare il paesaggio traendone ispirazione…).
In questi giorni sto leggendo e traducendo un po’ di critica letteraria in lingua inglese riguardante “The fish“. Nonostante le mie traduzioni siano un po’ rudimentali (diciamo così), fortunatamente non difettano in termini di efficacia consentendomi così di integrare l’analisi di Paola Nardi e di interpretare meglio il significato di alcuni versi della poesia. In particolare, quando all’inizio della poesia M. Moore scrive che «Dei mitili blu-corvo, uno continua a rassettare i cumuli di cenere; e si apre e si chiude come fosse un ventaglio ferito», si può comprendere cosa rappresentino «i cumuli di cenere» in questione soltanto tenendo a mente che la poesia ha per oggetto quella sezione di mare che incuneandosi tra le fenditure rocciose della scogliera (vicina alla costa) dà inizio allo scontro tra il mare stesso e la scogliera. I cumuli di cenere sono dunque ciò che resta dei poveri mitili vittime della singolar tenzone, perennemente in atto nella gola della scogliera, tra mare e terra. Si tratta di mitili meno fortunati di quello che rassettando le loro ceneri «si apre e si chiude come fosse un ventaglio ferito», come a voler manifestare in questo modo il suo dolore per la sorte dei compagni ridotti in cenere e per le ferite subite.
Quando M. Moore scrive che «L’acqua sospinge un cuneo di ferro entro lo spigolo ferrigno dello scoglio», intende dire che l’azione impetuosa dell’acqua marina che sbatte contro la scogliera, opera nel corso del tempo come se fosse uno scalpello scavando crepacci nella roccia della scogliera stessa che però nonostante tutto resiste audacemente. Anche la parte finale della poesia rende testimonianza del carattere indomito della scogliera: «Ripetute prove hanno dimostrato che lo scoglio può vivere di ciò che non potrà risuscitare la sua giovinezza. E dentro ad esso si fa vecchio il mare». In questi versi, come spiega G.I. Muhiadeen (le note tra parentesi quadre sono mie): “La scogliera presenta la parete del baratro [del burrone, del crepaccio] della gola all'acqua del mare, ossia la faccia lacerata dalle onde. Questa faccia è «morta», eppure la [coraggiosa] scogliera benchè abusata e oltraggiata, invero, paradossalmente, «puo' vivere» alimentando il suo spirito nelle asperità [che caratterizzano l'ambiente nella gola tra gli scogli] che la fanno [diventare] vecchia" [«lo scoglio puo' vivere di cio' che non potra' risuscitare la sua giovinezza»], e (aggiungerei io), facendosi vecchia, «dentro ad essa si fa vecchio [anche] il mare» "intrappolato" tra le fenditure rocciose della scogliera stessa. ;)
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